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I colori funzionali e le interfacce

Premessa

In questo mio QUADERNO vorrei, per gusto personale di ricerca e approfondimento, fare un’analisi critica più puntuale su quali effettivamente siano le funzioni più diffuse di determinate categorie cromatiche e perché, cercando anche di individuarne i limiti. Per questa ragione ho intitolato I COLORI FUNZIONALI e non “Il colore funzionale”. Il colore è funzionale di per sé, che sia naturale, ovvero proposto dalla natura o artificiale, ovvero imposto da noi. Considerando i colori imposti da noi, penso si possa arrivare a una considerazione discriminante.
Potremmo infatti dividere il notevolissimo numero di colori che possiamo distinguere, in due gruppi.
Quello dei colori estetici, ovvero scelti per vendere meglio qualcosa, come quelli di tendenza o stabili, destinati alle confezioni di prodotti di largo consumo alimentari, ma anche farmaci da banco), dell’abbigliamento e accessori, dell’automotive, della grafica pubblicitaria e istituzionale. Questo primo gruppo è appunto composto da colori di tendenza, inseriti nel mercato a cicli triennali o anche quadriennali e desinati a fare novità e colpo sull’utenza che ha sempre voglia di cambiare (il cambiamento è una necessità psicofisiologica dell’essere umano), e da quelli stabili, più o meno sempre presenti perché vendono sempre. In questo primo gruppo potremmo affermare di trovare un’offerta cromatica ricchissima, soprattutto di sfumature affascinanti, una tavolozza variegata anche in ragione del mercato nazionale nel quale viene proposta.
Il secondo gruppo è quello dei colori funzionali, oggetto di questa trattazione. Un gruppo più esiguo, composto da colori abbastanza puri o definiti, utilizzati come funzionali specifici.

Poco qui sopra, ho posto l’accento sulle categorie cromatiche; avrei anche potuto parlare di tinte, escludendo però i colori acromatici ovvero neutri, ma credo sia utile chiarire cosa sia una categoria cromatica.
Sì perché spesso si parla, per esempio, di rosso, che evoca, significa, rappresenta, provoca…come si scrive del verde, che evoca, significa, rappresenta, provoca, eccetera, ma basta dare un’occhiata ai campioni fisici di un sistema cromatico internazionale come NCS (2000 campioni fisici), per rendersi conto di quanti colori possano essere denominati come “rossi”, “verdi”, “gialli”…Dunque, mi sono chiesto, di quali colori si parla in quanto funzionali?
Nelle dissertazioni sui colori, forse per semplificare, ci si riferisce, spesso inconsapevolmente, ai così detti colori assoluti. La milionata delle sensazioni cromatiche avvertibili, ha portato inesorabilmente a cercare giustificazioni plausibili e significati per l’utilizzo di derivati dai colori assoluti e di molte sfumature, allontanandosi, per forza di cose, da una minima scientificità, riferendosi piuttosto alla classica psicologia del colore.

Nota: il termine psicologia, ci porta immediatamente alla figura professionale dello psicologo e alla sua formazione. Vorrei chiarire, prima di continuare, che la così detta psicologia del colore, rispetto alla quale avrete notato una mia certa prudenza, diciamo così, è qualcosa di antico, empirico e mai aggiornato, non certo basato su evidenze scientifiche. Questo perché creata prima dell’avvento delle moderne neuroscienze (anni ’60), che ora, a onore delle facoltà di psicologia, rientrano nei piani di studio.

Le ricerche della psicofisica moderna (percettologia) hanno affrontato il tema dei colori assoluti, senza però riuscire a dare un risultato univoco e condiviso, per cui le teorie rimangono diverse. Ma non ha importanza. Credo non servirebbe a molto poter disporre delle coordinate dei colori assoluti. Spesso è utile conoscere un concetto per comprenderne i limiti pratici, arrivando magari a concludere della sua effettiva inutilità. Le ricerche che risultino di nessuna utilità per sconfiggere le malattie, per il mercato e per i militari, solitamente rimangono nei cassetti.

Il problema, anzi l’ostacolo, forse perpetuamente insormontabile di sempre, è che i colori sono sensazioni cerebrali, ovvero un’interpretazione che il cervello crea per diverse dominanti di lunghezza d’onda o di frequenza della luce che entra negli occhi, purché, per queste frequenze, vi siano neuroni dedicati e sensibili.
Cosa significa colori assoluti ? Spesso si trova come definizione dei colori primari di sintesi sottrattiva, ma non è corretto. Si tratta invece del tentativo di definire le precise coordinate cromatiche e la riproducibilità in campione fisico, ovvero visibile e palpabile, di colori che siano i rappresentanti unici di ogni tinta. Quindi un unico campione che sia inequivocabilmente e universalmente riconosciuto ed eletto a essere il blu, il verde, il giallo…

Dai colori assoluti alla riproducibilità di un colore normato

Per passare a un esempio, potremmo definire assoluto un arancione il cui campione fisico (per esempio una stesura di pittura su cartoncino), posto all’interno di una scala tonale di altri campioni arancioni, risulti quello più scevro dall’essere tendente al giallo o al rosso, una specie di arancione “centrale”, l’arancione-arancione.

Le coordinate cromatiche assolute di un certo colore espresse in CIELab dovrebbero poi poter essere tradotte-riprodotte su un campione fisico, su una superficie visibile-palpabile e così, univocamente, su altre superfici visibili, compresi i display. Si può comprendere quali siano le difficoltà di riproducibilità se si tratta di stampa (basata su inchiostri), pitture (basate su leganti, solventi/diluenti, pigmenti, cariche ed additivi), display (auto-luminosi, quindi in sintesi additiva RGB), il tutto, e ho semplificato fin troppo, per fornirci un colore che viene visto poi su quale oggetto, in quali situazioni, a che velocità di osservazione, con quale luce naturale, sotto quali sorgenti di illuminazione artificiale, sotto quale angolatura, con quale profilo colore del monitor, in quale grado di intervento della costanza cromatica…insomma con una serie infinita di variabili che scosteranno inevitabilmente quelle sensazioni da quella prevista e certificata “a laboratorio”. Quindi si andrà sempre un po’ a sentimento, ad approssimazione, a esperienza percettiva. Ma le leggi dedicate alla sicurezza, compresa quella stradale, devono pur dare un’indicazione.

Le leggi sui colori / i colori normati

Il bianco e il nero non sono normati e nessuno si è mai preso la briga di identificare il nero o il bianco assoluti. Se privi della presenza di tinta, sono colori neutri o acromatici e stop. Tuttavia anche nella segnaletica più severa troverete sempre bianchi e neri diversi, ma nessuno lo contesterà mai, perché comunque verranno sempre riconosciuti come bianco e come nero.

Per gli estintori, la legge impone che il colore del corpo dell’estintore debba essere rosso RAL 3000. Per i cartelli che indicano il punto in cui va collocato l’estintore, come tutti i cartelli della segnaletica di sicurezza antincendio, è indicato il rosso RAL 3001. La differenza tra i due rossi RAL è minima e la si nota solo mettendo a confronto i due campioni, dunque non si capisce perché i cartelli non debbano essere dello stesso rosso degli estintori che indicano. Ormai i cartelli vengono realizzati applicando al supporto (plastica, alluminio, ferro, …) delle pellicole adesive permanenti, per realizzare le quali si procede con stampa digitale in quadricromia, quindi, alla fine, con inchiostri. La legge, salvo aggiornamenti dei quali non so l’esistenza, fa riferimento a una collezione di colori quale è RAL, creata in Germania nel 1925 e destinata al mondo delle pitture, specie su metalli. Comprensibile che in tutti questi passaggi applicativi e di formulazioni, possano esserci un po’ di scostamenti, ma il loro essere minimi, viene compensato dai limiti della visione cromatica umana, che difficilmente li rileva. Tanti studi e ricerche sarebbero inutili se poi non si traducessero in una pratica di utilizzo, tuttavia si sa, e lo sanno anche i normatori, che se mi trovo di fronte a un cartello “rosso” con delle scritte o pittogrammi, non mi chiedo, per decidere il mio atteggiamento-comportamento, se si trattindi un rosso fuoco o Ferrari o NCS 1580-Y80R o RAL 3000 o Pantone 186c. Importante è che io lo riconosca, senza dubbi, come rosso, e non mi venga in mente di definirlo come rosso scuro o aragosta o rosa o bordeaux o marrone. Lo riconoscerò come “rosso-rosso”, che sia stato certificato o meno come assoluto o che corrisponda esattamente o meno al codice-colore prescritto dal normatore.

I colori funzionali dell’ambiente naturale

Come già scritto, tutti i colori offerti dall’ambiente naturale possono essere definiti funzionali, ovvero hanno una funzione per noi importante o, per lo meno, coadiuvante per la nostra sopravvivenza.
Altri esseri viventi e vedenti che abitano il pianeta, hanno fotorecettori e altri neuroni visivi diversamente congegnati, per cui, data la stessa luce selettivata da un oggetto (quella che erroneamente si dice “riflessa” da un oggetto illuminato), hanno sensazioni cromatiche diverse. A volte anche più di quelle che abbiamo noi, a volte molte meno, a volte diverse.

Le api, per esempio, hanno il loro spettro visivo spostato verso l’ultravioletto, per cui ad esso corrisponde per loro una sensazione cromatica che noi non abbiamo, mentre non possono avere quella che noi chiamiamo rosso. Per loro un papavero è nero. I suoi petali sono rilevabili solo in quanto contornati da un contesto visibile.
Per noi il “buco nero visivo” sarebbe il nero opaco, se non fosse che spesso non è proprio nero assoluto e qualsiasi oggetto, anche opaco, riflette un po’ di luce in qualche sua parte (qui è effettivamente riflessione), creando chiari scuri che ci aiutano a rilevare le sue forme. Recentemente è stato messo a punto un materiale particolare da utilizzare a guisa di pittura, che è in grado di ridurre drasticamente quella minima parte di luce emessa da un oggetto nero e pure i riflessi di superficie. Si tratta del Blackest Black che, come riporta Wikipedia, è una sostanza composta da nanotubi di carbonio, sviluppata nel 2019 dal Massachusetts Institute of Technology in grado di trattenere il 99,995% della luce, diventando il materiale più nero mai creato dall’uomo, battendo il record fino ad allora detenuto dal Vantablack.
Riporto questo fatto perché vi starete chiedendo, come me, a cosa potrà servire questo materiale così invisibile o quantomeno molto nascondente, specie in una notte senza Luna. Potrebbe servire per qualche tecnologia che richieda, in qualche sua parte, che la luce venga assorbita quasi totalmente, come avviene per l’occhio umano a opera dell’epitelio pigmentato retinico. Oppure potrebbe servire per scopi militari, sempre finalizzati al nascondimento.

Ci siamo adattati noi, affinché i colori della natura risultassero funzionali

La curva di luminosità dell’occhio umano in visione fotopica, ci rende evidente che la sensibilità dei nostri fotorecettori retinici è massima intorno a quelle frequenze della luce selettivata, ovvero quella emessa dagli oggetti illuminati, che ci danno le sensazioni di verde e giallo, per poi decadere fino ai minimi termini verso il blu-violetto, per le alte frequenze (o corte lunghezze d’onda) e verso il rosso, per le basse frequenze (o lunghe lunghezze d’onda). Questo è abbastanza logico, perché, per più alte o più basse frequenze della luce così detta “visibile”, i fotorecettori non vengono più stimolati, dunque rimanendo inattivi ci rendono ciechi a quelle frequenze. Un limite della nostra possibilità di vedere e di avere la sensazione di luce (illuminazione delle cose intorno) deve avvenire in qualche modo e, secondo una certa legge naturale, avviene in modo rapido, ma progressivo nei due lati opposti dello spettro “visibile”.

Oltre la soglia del violetto, troviamo l’ultravioletto, che non ci dà più effetto d’illuminazione e che non vediamo; non è ionizzante. Ancora oltre, sempre per più alte frequenze della luce (radiazione elettromagnetica), ci sono i raggi X, quelli della TAC, che sono però ionizzanti e che pure loro non ci danno sensazione di illuminazione. Dall’altro lato dello spettro, oltre il rosso, troviamo le più basse frequenze e, per primi, gli infrarossi; anch’essi non “illuminano”, ma li percepiamo come calore. Oltre ancora troviamo le microonde, le onde radio, fino alla corrente alternata, quella che corre nei fili, perché pure lei è luce.

Dissertando sul colore, insisto nel ricordare al lettore, che il colore è una sensazione creata-residente nel cervello, in risposta a oggetti privi di colore, sottoposti a determinate frequenze della luce. Qualche differenza genetica dei neuroni visivi, avrebbe potuto farci vedere alberi e prati in molteplici sfumature di blu, il cielo verde e così via. Quindi non è il verde come sensazione percepita che ci provoca, che induce, che rappresenta, ma la radiazione elettromagnetica emessa da tutti gli oggetti che “vediamo” come verdi. Si può quindi affermare che l’essere umano utilizzi le sue sensazioni cromatiche per distinguere le diverse frequenze della luce selettivata, ovvero emessa dagli oggetti illuminati. Siamo raffinatissimi spettrofotometri senza rendercene conto e senza bisogno di numeri e formule, perché non ne abbiamo bisogno. Dunque: riprodurre sensazioni non è cosa facile.

È interessante quindi considerare i colori prevalenti dell’ambiente naturale dal punto di vista dell’adattamento del nostro sistema visuo-percettivo.

Il primo che viene in mente è, appunto, il verde; dunque l’ambiente boschivo, con i suoi diversi alberi frondosi, arbusti e radure a prato. Offre una vasta gamma di colori e sfumature per noi rilevabili-distinguibili, perché si tratta di una finestra di frequenze così dette medie, ovvero al centro e al massimo della nostra sensibilità visiva. Andando a indagare “foglia per foglia”, ci si rende conto di quanti verdi differenti vi siano. Verdi bluastri, verdi giallastri, gialli verdastri, più o meno saturi, più o meno chiari. Affermiamo che le olive sono verdi, ma in effetti si tratta di un giallo verdastro scuro. Il terriccio, il fango, i tronchi e i rami degli alberi sono gialli rossastri e arancioni giallastri scuri, che chiamiamo marroni. La sabbia, le pietre sono quasi sempre arancione attenuato o molto attenuato, ovvero beige e grigio-beige, anche scuriti.

Cosa c’è di funzionale?

La lettura visuo-percettiva del paesaggio è resa più facile; comprendiamo meglio dove è possibile camminare e abbiamo una migliore percezione delle profondità e delle distanze. Se improvvisamente tutti i verdi della natura si unificassero in un unico verde RAL, andar per boschi sarebbe un vero incubo.

Ripropongo una considerazione percettiva che forse ho già scritto in un altro QUADERNO; se già letta saltatela. Vi sarà capitato di percorrere, per la prima volta, un lungo sentiero di campagna o montagna per arrivare a una certa meta.
Percorrendo a ritroso il sentiero, probabilmente vi sarete trovati in discesa, e avrete avuto sulla vostra sinistra ciò che prima era a destra e viceversa, in più, ciò che prima era davanti a qualcos’altro, sarà dietro, insomma la sequenza delle diverse scene sarà invertita. Però avrete riconosciuto i luoghi dove siete passati, pur non avendo nemmeno pensato lontanamente di imparare le diverse sequenze del paesaggio. Orientarsi in mezzo al mare o a un deserto è ben più difficile, in quanto ambienti privi di oggetti complessi stabili, di diverso colore e organizzati secondo differenti modalità di raggruppamento. Ricordatevene nel momento in cui doveste occuparvi, come progettisti, di wayfinding…

I colori dei fiori servono agli insetti e, per noi, mirtilli, lamponi e fragole sono facili da individuare. Notiamo che i rossi e i blu fisici, ovvero legati a oggetti naturali, sono sempre di piccole dimensioni. Anche se il loro colore si trova ai limiti della nostra capacità visuo-cromatica, il loro trovarsi in un ambiente dominato da ciò che possiamo vedere agevolmente, li rende discriminabili e facilmente rilevabili per la loro diversità e rarità. I cibi rossi, in confronto a quelli verdi, gialli e arancioni, sono meno, quelli blu-violetto-viola ancora meno.

Ma veniamo al blu fisico in natura: ci sono pochissime “cose” blu. Piuttosto miscugli di rosso e blu insieme, insomma un po’ di viola o porpore attenuate in fiori, ortaggi, bacche.
Poi c’è il blu non-fisico, quello privo di pigmenti, che è quello del cielo, del mare, dell’acqua di un lago, che dipende però dalla profondità e dal cielo, perché quando è nuvoloso, il mare è grigio. Dunque poter discriminare molte sfumature di blu nell’ambiente naturale, ci sarebbe servito a poco e idem per il rosso. Evidentemente rilevare maggiormente la differenza tra il rosso di un peperone e il rosso di un pomodoro, secondo madre natura, ci sarebbe servito a poco.

Nel caso dell’ambiente naturale e dei suoi colori che “vediamo”, possiamo pensare che il nostro sistema visivo si sia adattato a ciò che per l’essere umano era importante per la propria sopravvivenza. Vorrei sottolineare questo aspetto: ancora oggi, in era informatizzata, tecnologica e con l’intelligenza artificiale in pieno sviluppo, il nostro sistema nervoso, comprese le aree cognitive, è sempre attento a preservarci la vita, segnalandoci pericoli e vantaggi.

C’è un altro fattore importante da tenere in considerazione ed è quella della messa a fuoco dei colori.

Le diverse frequenze della luce emessa dagli oggetti illuminati, passando attraverso il sistema diottrico dell’occhio, subiscono una diversa rifrazione. Basti pensare al famoso raggio di luce di Newton, che passando attraverso un prisma, esce come un arcobaleno, a causa delle diverse rifrazioni delle diverse frequenze. Tornando all’occhio umano, si sa che i colori intorno a verde e giallo, a causa della rifrazione del sistema diottrico dell’occhio, arrivano in retina (meglio in fòvea) senza che sia richiesta una sensibile accomodazione, ovvero messa a fuoco da parte del cristallino. Sì perché non è detto che tutte le frequenze della luce vadano automaticamente dove devono andare, infatti, i colori intorno a blu convergono un po’ prima della fòvea, inducendo una messa fuoco all’infinito, ovvero discostando un po’ il cristallino dalla sua posizione basale (leggera accomodazione), che possiamo pensare non predisposta per l’infinito, ma per distanze minori, dove può essere più facile avvistare un eventuale pericolo o vantaggio (sopravvivenza).

Si tratta di quello che mi permetto di definire orizzonte prossimale. Ovunque ci troviamo, tendiamo a identificare un orizzonte personale, che costituisce una specie di limite massimo di esplorazione visiva, tale da permetterci di analizzare velocemente ciò che c’è tra lui e noi, sempre per la già nota sopravvivenza.

Quando l’oggetto da mettere a fuoco sarà a circa 18 centimetri dai vostri occhi e non sarà più possibile accomodare, per minore distanza l’oggetto risulterà sfuocato. Pensate alla meraviglia della natura e del corpo umano. A cosa ci servirebbe poter mettere a fuoco un oggetto al di sotto di 18 centimetri? A quella distanza la convergenza oculare non c’è più; dovremmo guardare con un solo occhio e se abbiamo permesso a qualcosa di pericoloso di arrivare a quella distanza, ebbene…

Un quadrato blu messo a fianco di uno rosso e di pari dimensioni, ci appare un poco più lontano, perché il rosso, per una questione di rifrazione, tende ad andare a convergere dietro la retina, richiedendo un accomodazione contraria, per cui appare più vicino.
Questo effetto è psicofisiologico, perché a livello visivo i due quadrati sono alla stessa distanza e di uguale dimensione, ma il cervello registra anche le minime accomodazioni dell’occhio, per cui, se deve mettere l’occhio in condizioni di fuoco ideale, come fa quando un oggetto si trova vicino, ne desume che il quadrato rosso, a causa del quale induce un’operazione simile, deve essere più vicino, quindi “deve” apparirci più grande.

Ma l’ambiente naturale, per fortuna, non si diverte a farci simili scherzetti. Ne fa di peggiori, ma a essi ci siamo adattati e non ci caschiamo. Quando si tratta di qualcosa creato da noi, riusciamo a ingannare il nostro sistema visuo-percettivo con le così dette illusioni ottiche, che sono psico-fisiologiche, perché gli occhi fanno il loro lavoro regolarmente, ma è il cervello a inciampare, facendoci percepire ciò che non è.

Si legge bene? No, perché le scritte vengono messe a fuoco con un’accomodazione che risulta all’opposto rispetto a quella richiesta dal fondino e ciò provoca un effetto di vibrazione, perché il cervello, non potendolo fare contemporaneamente, mette a fuoco alternativamente la scritta e il fondino.

Dopo questa disamina su quanto sia complicato il mondo del colore “utilizzato” nell’artificiale, passo a una panoramica sui colori funzionali, certamente con molte omissioni.

ROSSO

In una sola parola: ATTENZIONE

Il rosso, come si è visto, ha la caratteristica di andare a fuoco dietro la retina, dunque di richiedere una maggiore accomodazione dell’occhio, seppur minima. Questa attività allerta il cervello (parlo sempre di cervello per scorciatoia, ma intendo il sistema nervoso in tutta la sua complessità e interezza), dunque il sistema attenzionale si attiva maggiormente. La connessione talamo>amigdala alla ricezione di uno stimolo ritenuto potenzialmente pericoloso (ma attenzione: anche vantaggioso), ancora prima che venga elaborato dall’ippocampo e poi dall’area cognitiva consapevole, deve decidere cosa farci fare istintivamente e immediatamente per salvarci la vita e lo deve fare in una frazione di secondo, anche contro la nostra volontà. Viene immediatamente attivato il SNA simpatico che, fisiologicamente, ci mette in condizioni di difesa-lotta-fuga. Forse per questa ragione il rosso, nella segnaletica, è introdotto per destare attenzione, anche perché il colore più visibile in lontananza (purché non sia una fragola a due chilometri di distanza!).

Cercando delle ragioni che accontentino tutte queste immagini dove il rosso è protagonista, le troviamo nella sua visibilità invasiva, nella sua caratteristica di attirare l’attenzione e di attivare il sistema nervoso autonomo, inducendo una maggiore attivazione del suo ramo ortosimpatico. Queste induzioni del rosso, possono essere nate nell’evoluzione dell’adattamento degli esseri umani all’ambiente, dove certamente la vista del sangue generava queste attivazioni attenzionali. Il rosso non identifica il pericolo, ma ci avvisa che potrebbe esserci. Come scritto qui sopra, potrebbe identificare un vantaggio. Un estintore, per esempio, non è un pericolo, ma un vantaggio. Se fosse vero che le risposte del SNA sono collegate alla visione del sangue, potremmo affermare che il sangue rappresenta per noi la vita, dunque non può costituire un pericolo, purché non ci si accorga di perderne; il ché ci metterebbe in allarme. Nessuno premerebbe un pulsante rosso, se farlo fosse pericoloso. Un tasto rosso raccomanda attenzione perché premendolo si attiverà qualcosa che potrebbe essere pericoloso e nello stesso tempo si pone in evidenza come comando che attiva un sistema che poi richiederà controllo.

I camion dei vigili del fuoco sono rossi per essere visibili e riconoscibili come gli estintori, che nel fumo di un incendio rimangono più visibili e distinti da altri oggetti (in natura di oggetti rossi ce ne sono pochi, ricordate?). Il cartellino che ne segnala la presenza deve essere visibile anch’esso e di certo non segnala un pericolo. In quanto all’abbigliamento il discorso è un po’ più complicato. Mentre per la signora in abito rosso possiamo dedurre che sicuramente non voglia passare inosservata, per le giubbe rosse in uso un tempo in battaglia, possiamo trovare diverse funzioni. Quella di riuscire a controllare il movimento dei propri commilitoni evitando di sparargli, quello di essere diversi e ben visibili dal nemico per fronteggiarlo, sfidarlo, mettergli paura, nascondere agli occhi dei propri soldati il sangue che si spargeva ad ogni scarica nemica e fare in modo che ogni soldato si caricasse ancor di più di adrenalina, che è un ottimo anestetico.

Poi, nell’evoluzione delle armi e delle tecniche di battaglia, si decise che forse era meglio non farsi vedere per niente dal nemico, e così dal colore del sangue, si passò a quello del fogliame, mescolando diversi verdi e i colori del terreno, cercando di spezzare la sagoma: nacque il vestiario mimetico.

GIALLO

In una sola parola: EVIDENZA

Il giallo è il colore cromatico più luminoso, ma se visto da lontano è facile si confonda con il contesto. Dunque è molto efficace in prossimità e certamente attira più lo sguardo del bianco (colore acromatico). Il giallo è poco utilizzato probabilmente per la sua luminosità e per il fatto che non è possibile attenuarlo più di tanto o scurirlo senza che scada nel verde o nell’ocra o nel marrone. Bisogna prenderlo così com’è. Per questa ragione è funzionale come colore di evidenza.
Anche il giallo semaforico è un evidenziatore che, tra il verde e il rosso, segnala che il semaforo è attivo e qualcosa potrà cambiare.
A livello di SNA è un blando attivante del simpatico, dunque mette in condizioni psicofisiologiche ideali di attenta analisi dei cambiamenti, un po’ come induce una giornata soleggiata.

GIALLO E NERO

Il pericolo è qui!

Come colore funzionale, il giallo viene spesso usato per mettere qualcosa in evidenza, se unito al nero crea un forte contrasto utilizzato per segnalare un pericolo vicino. Questo binomio comunica “Il pericolo è qui!”

Ma perché? Una delle ipotesi più accreditate, si riferisce al mondo animale, dove si sa che esistono prede e predatori, che però possono a loro volta essere predati. Con una livrea a chiazze o righe alternate di giallo e nero, comunicherebbero di costituire un pericolo per i loro predatori, in quanto velenosi, dunque tossici. Questa caratteristica si chiama aposematismo. Ci appare essere all’opposto del mimetismo, dove la possibile preda rimane immobile e cerca di assimilarsi con il contesto, con lo scopo di non essere rilevabile.

Con l’aposematismo, la possibile preda vorrebbe invece farsi notare, pure muovendosi lentamente, ostentando la certezza di non essere preda, in quanto pasto sgradevole e mortale. La memoria collettiva dei possibili predatori farebbe il resto, diventando un referente stabile per quella specie, compresa quella umana. Come ho già scritto in un altro QUADERNO e non di certo per confutare le teorie di illustri studiosi (Edward Poulton), aggiungerei, in convergenza, due mie considerazioni.

La prima. Dal punto di vista percettivo, riceviamo da partizioni del corpo animale o del segnale artificiale di pericolo, due induzioni in contrasto. Dalle partizioni gialle, una leggera e maggiore attivazione del SNA simpatico, da quelle nere una maggiore attivazione del SNA parasimpatico (infatti si consiglia di dormire a luci spente). Questo contrasto mette in condizioni l’asse talamo>amigdala di non essere immediatamente in grado di capire se si tratti di pericolo o no. In questi casi, di non riconoscimento immediato, reagisce segnalando comunque un pericolo. Il tutto supportato dall’estrema evidenza del giallo contrapposta al nascondimento del nero, che mettono in difficoltà visiva.
Atteggiamento tipico dell’essere umano anche in piena attività cognitiva: quando si deve decidere cosa fare, ma non si comprende bene la situazione, si avverte una sensazione di pericolo e meno si riesce a capire, più il simpatico aumenta la propria attività e ciò non ci aiuta di certo a capire meglio.

Esempio di reazione dell’asse talamo>amigdala
Siete in campagna e nel vostro inconscio sapete che possono esserci in giro vipere o comunque serpenti dei quali, come tutti, avete timore se non terrore. Camminando nell’erba alta incappate in un pezzo di manichetta dell’acqua abbandonato. Facile che vi fermiate con il sangue raggelato o che facciate un balzo indietro, prima di capire che si trattava di un tubo di plastica.

La seconda. Rimanendo che un giallo vivido costituisca un evidenziatore, il nero, soprattutto come livrea di una possibile preda, non risulta molto invitante da un punto di vista alimentare, in quanto colore della degradazione organica, di ciò che è marcio, putrido, quindi tossico. Il nero, inoltre, è nascondente e quasi invisibile. Il fatto che le livree aposematiche siano costituite da colori molto saturi ed evidenti conferma la teoria del “mi faccio notare, non scappo, perché sono non commestibile, quindi non sono una preda”, ma soprattutto per il più diffuso binomio giallo-nero, penserei a qualcosa di legato alla percezione visiva dei predatori, ovvero al loro comportamento a seguito di ciò che effettivamente vedono. Mettendo in evidenza (giallo) alcune parti del proprio corpo e nascondendo altre parti (nero), per il predatore è più difficile rilevare la forma completa della preda, vedendo diversi pezzi, scollegati tra loro, che si muovono, ma dove ognuno di essi non corrisponde alla forma compiuta di una preda appetibile. Qualsiasi sia la spiegazione, sta di fatto che gli esseri umani si sono ispirati a questa diffusa variante di aposematismo, come suggerimento per segnalare qualcosa di pericoloso.

VERDE

In una sola parola: LIBERTÀ

Si sa bene quanto sia psicologicamente salutare fare una passeggiata in campagna.
Il verde favorisce l’omeostasi, dunque il riportare in equilibrio il sistema nervoso autonomo. Le sue induzioni sul SNA sono in pratica nulle, per questo non lo si può ritenere un colore emozionale, né come attivante di condizioni fisiologiche di difesa-offesa-minore sensibilità agli stimoli endogeni ed esogeni, né di tranquillità-fiducia-maggiore sensibilità agli stimoli endogeni ed esogeni. Il suo utilizzo funzionale è quando si desideri lasciare libertà di scelta istintuale, al buon senso, all’equilibrio interiore e comportamentale.

Il verde del semaforo, non significa che si possa partire a razzo in tutta sicurezza, scartando l’ipotesi che ci possa essere qualche intoppo. Questo è ammesso nelle gare su pista. Il senso del verde semaforico è quello di lasciare la libertà di procedere, con il sottinteso che vada fatto in regola con il codice della strada, ovvero con buon senso ed equilibrio. Le confezioni verdi di prodotti, alimentari e non, sono state spesso fallimenti del marketing, proprio perché per vendere, bisogna dare emozioni, quali che siano. Il mercato si riferisce al verde per esprimere il concetto di Green, ovvero di prodotto ecologico, biologico, insomma in linea con il rispetto e la tutela dell’ambiente naturale, ma richiede un impegno cognitivo maggiore e la gente va di fretta. Paradossalmente, pare che i pigmenti necessari a stampare, produrre, colorare qualcosa di verde, siano tra i più tossici ed inquinanti. In sintesi, la funzione del verde si realizza soprattutto nella segnaletica e nelle interfacce per comunicare libertà di azione e condizione stabile e in equilibrio di un sistema. Libertà di procedere-decidere.

ARANCIONE

In una sola parola: VISIBILITÀ

L’arancione, così come il giallo, è uno dei colori più visibili, ma essendo più vicino al rosso, è più rilevabile da lontano e lo aiuta anche il suo essere più luminoso del rosso. Potremmo definirlo il campione di visibilità su ogni sfondo, che sia ambiente urbano, naturale verde, marino, innevato e pure desertico. Per questo la sua utilità d’elezione (spesso unito o in bilico con l’essere giallastro o rossastro) è la visibilità. Nelle sue numerose declinazioni attenuate è utilizzato per il trucco. Il colore della pelle è giallo chiaro, ma l’irrorazione sanguigna capillare ce la fa apparire arancione attenuato. Forse per questa stretta appartenenza al corpo umano (compresi i capelli che sono arancione scuro e, in alcuni soggetti arancioni, anche se chiamati rossi), non è un colore molto usato nell’abbigliamento e nemmeno per gli oggetti di uso comune, auto comprese, salvo eccezioni in certi periodi, ma con scarso successo di vendite. Sarà perché siamo arancioni che per l’abbigliamento prediligiamo il blu, che la moda non ci nega mai. È più facile trovarlo su dispositivi di sicurezza e su automezzi da lavoro. Comunque, se arancione assoluto ha la sua utilità per la visibilità, non si può sottovalutare la sua utilità nelle sue sfumature più attenuate, non solo per il trucco, ma anche per l’abbigliamento e l’arredamento, in quanto, sempre se molto attenuato, è ritenuto un colore accogliente, elegante e discreto. Come gli succede con i pesci rossi che sono arancioni e il “rosso fuoco” che pure lui, il fuoco, è arancione, subisce l’altra ingiustizia di cambiare denominazione, come color incarnato, beige, color sabbia, sacco, e simili molto usati nel marketing dell’interior design e del prêt-à-porter. Ciò che rende funzionale l’arancione anche nelle sue sfumature più attenuate è la possibilità di essere giustapposto a qualsiasi altra tinta, quasi fosse un grigio cromatico (il così detto grigio caldo è un arancione).

Ma secondo me l’ingiustizia più grave è quella di chiamare queste sue sfumature attenuate “colori neutri”. Un grossolano errore, perché le sfumature tenui dell’arancione sono colori cromatici. Per colori neutri, ovvero non contenenti tinta (non intesa come pittura!), s’intende il nero e il bianco acromatici e tutta la scala in chiarezza del grigio acromatico.

BLU

In una sola parola: DISTINZIONE

L’uomo che si distingue è distinto, un signore distinto; ma qui torniamo all’antico e costoso blu, privilegio-simbolo della nobiltà e non vorrei si ricadesse nei significati dei colori. Piuttosto approfondiamo. Perché il blu è distinto? Distinto da cosa? Da chi?

Tutti sanno che nella retina dell’occhio umano è presente una moltitudine di neuroni visivi chiamati coni e deputati, non solo alla visione di per sé, ma anche a inviare uno stimolo in ampiezza che, passando attraverso l’elaborazione di altre cellule visive, arriva a quelle che, nella corteccia visiva, sono deputate alla creazione di quelle sensazioni che chiamiamo colori. Tutti sanno che i coni sono organizzati in tre gruppi di sensibilità; quelli sensibili alle alte frequenze della luce (coni S short-waves cones), quelli alle medie (coni M medium-waves cones) e quelli alle basse frequenze o lunghe lunghezze d’onda (coni L long-waves cones). Ma non tutti sanno che la nostra maggiore acuità visiva, ovvero dove vediamo a fuoco e nel miglior dettaglio, si realizza in una piccola area della retina chiamata fòvea e che in questa i coni sensibili al blu sono pochissimi, al punto da azzardare che la loro influenza-attività sia quasi trascurabile. Per questo il blu assoluto è un colore poco luminoso. Comunque, se osserviamo un oggetto blu, la sensazione di blu l’abbiamo eccome, tanto da ritenere che la sensazione di blu intenso e a fuoco, venga creata per integrazione retinica e per esclusione. Ma la spiegazione riguardo all’esclusione, che coinvolgerebbe il “ragionamento” delle cellule a doppia opponenza (double opponent cells), sarebbe complicata e semplificarla sarebbe un azzardo, per cui lascio perdere.

A questo punto, a proposito di colore funzionale, c’è da chiedersi per quale ragione siano stati scelti lampeggianti blu per gli automezzi di intervento prioritario, come quelli della Polizia, dei Carabinieri, della ambulanze e dei Vigili del Fuoco, dato che, pur trattandosi di luce, ci appare stranamente scura.

Le ragioni sono due e metto per prima quella fisiologica. I coni S sono pochissimi in fòvea, ma si rifanno alla grande nelle aree periferiche della retina insieme ai bastoncelli, i quali, in fòvea proprio non ci sono. In visione mesopica e specie scotòpica, cioè di notte, avrete notato che si riesce a vedere meglio con la così detta “coda dell’occhio” ovvero in visione periferica. Questo perché cercando di mettere a fuoco qualcosa al buio, si manda quel poco di luce che c’è a convergere in fòvea, dove però ci sono solo coni, che con poca luminosità ambiente, rimangono quasi inattivi. Proprio dove potremmo vedere bene e in dettaglio, siamo praticamente ciechi. Quindi, mentre in visione periferica, anche di giorno, rischiamo di perdere tutte le sensazioni cromatiche, ecco che l’unico colore in grado di farsi distinguere meglio è il blu. Specialmente di notte, siamo in grado di notare le luci blu con la coda dell’occhio. Dalla neurofisiologia ci arriva una conferma: la curva di luminosità dell’occhio umano in visione fotopica, ha l’apice intorno a giallo e verde, mentre in visione scotopica, ovvero con luce molto scarsa o di notte, la curva si sposta verso il blu, rendendolo in pratica, il più distinguibile.

La seconda ragione è che le luci blu si distinguono da quelle dei gruppi ottici delle auto (lo stop rosso e le frecce gialle), dal verde, giallo e rosso dei semafori, insomma le luci blu, specie se lampeggianti si distinguono da tutte le sorgenti luminose artificiali e anche naturali, per questo sono distintive dei mezzi di intervento prioritario.

BIANCO

In una sola parola: FACILITÀ

Questa mia attribuzione sembra quasi polemica, ma, a ben vedere, il bianco risolve spesso il problema: di che colore lo facciamo?
Eppure il bianco industriale è il colore più difficile da realizzare. Certo formulato e riformulato affinché non ingiallisca o ingrigisca col tempo, non è ormai complicato per le produzioni. La difficoltà è piuttosto quella ben rilevabile, facendo un giro in qualche negozio che vende lavatrici e lavastoviglie. Una accanto all’altra, di diverse marche, di solito tutte bianche, ma di bianchi differenti, magari di poco, ma diversi.

Chi progetta e desidera un bianco-bianco, che più bianco non si può, spesso non sa a quale collezione o sistema cromatico riferirsi. Per questo parlo di un colore funzionale e facile, perché facilita la scelta. “Sta bene con tutto”, come il grigio e come il nero. Il bianco è la soluzione ideale per chi abbia paura di stancarsi di una tinta, perché il bianco vero, per definizione è un colore acromatico, ovvero privo di tinta. Spesso però appare sì bianco, ma non è un bianco acromatico, ma cromatico, basta che abbia un leggero sapore di giallo o di nero o di arancione o blu e prende specifiche fantasiose come bianco avorio, bianco gesso, bianco panna, bianco burro, bianco ghiaccio, bianco lino, bianco latte eccetera. Ma non è un grosso problema, perché anche il bianco su bianco è gradevole. Un paesaggio innevato insegna, perché pur essendo il colore della neve sempre lo stesso, ci appare diverso per l’effetto delle ombre, della diversa compattezza, massa, inclinazione delle superfici e illuminazione, variando dal bianco, al grigio, all’azzurrino, al giallastro.

Il bianco funzionale facilita il controllo delle superfici. Le camicie e le maglie a pelle e l’intimo sono classicamente bianche, come i battiscopa e i sanitari del bagno, perché è facile controllarne l’igienizzazione. Il bianco è utile come fondo perché, se vuoi, dopo ci puoi mettere sopra quello che ti pare, che sia scritto, pitturato o appiccicato. Tutte le auto di servizio, di qualsiasi servizio, sono bianche e poi vengono decorate diversamente, se si tratta, per esempio, di ambulanza, di auto della polizia locale, dell’Asl o dell’Enel.
Le auto pubbliche, da gialle, sono ormai bianche da anni. Le trovi bianche in tutte le marche e cilindrate, costano meno che ordinarle giallo-taxi e si possono rivendere come un usato qualsiasi. Il bianco ha anche altre utilità non da poco, che lo rendono un colore facile da scegliere.

Intanto, emettendo molta luce se illuminato, è certamente il colore più visibile insieme con il giallo, anche se non ne ha la caratteristica di mettere in evidenza “attirando lo sguardo”. Di notte è il più visibile. Qualsiasi veicolo di colore bianco gode della sicurezza che dà l’essere rilevato immediatamente. Qualsiasi elettrodomestico o mobile e pure le autovetture, se di colore bianco, costano meno, perché se ne vendono di più. Un veicolo bianco assorbe meno calore, quindi rimane più fresco e richiede meno interventi di climatizzazione. Il colore funzionale dei caschi per motocicletta è il bianco. È funzionale anche per rendere certi cibi attrattivi per la loro dichiarata purezza, raffinandoli o sbiancandoli.

Per ciò che riguarda le attività nello spazio, la scelta è stata facile e non di certo per fare marketing. E che nessuno scriva più che il bianco è un non-colore.

NERO

In una sola parola: NASCONDIMENTO

Nell’abbigliamento, gli abbinamenti nero su nero spesso ci dimostrano che, benché sia il colore industrialmente più facile, anche i neri sono spesso diversi. Ma si nota poco, perché il nero è nascondente. Molti oggetti vengono prodotti in colore nero (anche materico), magari pure opaco, affinché risultino quasi invisibili. Il nero nasconde la qualità dei materiali, la consistenza, il peso, i difetti, le fughe di assemblaggio, le parti eventualmente rovinate. Le case automobilistiche lo hanno capito da anni: la plancia o la rivesti in pelle, oppure, purché in nero, la realizzi in finta pelle o materiale plastico goffrato.
Il nero viene percepito come un contenitore di valori e qualità non visibili.
Indossare il nero non significa necessariamente volersi nascondere (salvo per Diabolik, Batman o tipetti del genere), ma non ostentare l’abbigliamento, per dare più valore al contenuto, al viso, a ciò che si dirà: non-ostentazione, dunque eleganza e discrezione. È il colore d’elezione per gli oggetti tecnologici, perché dà più peso e consistenza percepiti ai contenitori, normalmente di materiali leggeri. Il difetto del nero industriale è quello di trattenere molto infrarosso; dunque un oggetto nero esposto al Sole è più soggetto a danni provocati dal calore. Il nero industriale è il colore più facile, perché può derivare da qualsiasi tinta scurita al massimo. Ragionando in sintesi sottrattiva, è il nero l’effettivo contenitore-somma di tutti i colori.

I limiti del colore che comunque è sempre gregario, dunque privo di autonomia

Ci sono molti ambiti delle attività umane che sfruttano le sensazioni cromatiche attribuendo un colore a determinate funzioni o situazioni da controllare. Salvo rari casi nei quali l’operatore sa cosa significhi un LED rosso che si accende nel quadro di controllo di una macchina (non necessariamente un veicolo), a quella luce dovrà essere aggiunta una scritta o un’icona o pittogramma che ne spieghi-confermi il significato. Che una spia rossa significhi attenzione, sta accadendo qualcosa che va controllato-fermato, è abbastanza intuitivo, ma senza un’indicazione aggiunta che suggerisca che cosa non va, rischia non solo di perdere utilità, ma anche di creare smarrimento e possibili errori di valutazione.

Nota che c’entra poco.
Circola ancora la diceria secondo la quale ognuno vedrebbe i colori in modo diverso dagli altri; sarebbero poi le denominazioni a mettere a posto le cose durante il confronto verbale tra una persona e l’altra. Se fosse così, i colori normati sarebbero uno stupido e inutile gioco di società e John Dalton, che si accorse di vedere i colori in modo diverso (era discromatopsico) dagli altri, proprio confrontandosi con loro, invece di “scoprire” il daltonismo (!), avrebbe solo scoperto una banale normalità. Comunque varie ricerche neuroscientifiche e un dispositivo chiamato anomaloscopio, hanno da anni dimostrato che tutti i soggetti che abbiano una visione cromatica normale, vedono i colori nello stesso modo, anche nelle sfumature più critiche e nei passaggi tonali più lievi. Altrimenti il color test Farnsworth Munsell 100 Hu, per diagnosticare la discromatopsia (daltonismo), sarebbe impossibile da affrontare anche da tricromati normali.

Normative e Berlin e Kay

Andando a curiosare in ogni normativa, ci rendiamo conto che i colori utilizzati sono pochi, soprattutto se si tratta di luci.
Per esempio, nelle normative più articolate, come nell’elettricità (colore dei cavi), ci sono pochi colori destinati ad assumere ruoli univoci, ovvero a segnalare attenzione e/o pericolo o particolari funzioni. Altri colori servono solo affinché un cavo, al quale sia attribuito il solo semplice ruolo di conduttore, sia riconoscibile, quando sia nuovamente visibile e maneggiabile dopo essere passato dentro una canalina o sottotraccia. Insomma, si è sempre evitato di attribuire funzioni prioritarie a colori non monolexemici, ovvero con aggettivazioni aggiuntive come “chiaro” o “scuro”. Quindi, al fine di non confondere l’utenza, si ricade sempre nelle 11 categorie cromatiche monolexemiche di Berlin e Kay:
Nero, grigio, marrone, rosa, viola, bianco, giallo, arancione, rosso, verde, blu.

Se decido che qualcosa di verde rappresenti qualche stato o funzione, è meglio che, nella pratica di quel sistema normato io ne scelga-stabilisca uno solo, che sia chiaro o scuro o di qualsiasi tonalità, ma purché sia sempre e unicamente quello, sempre uguale e sempre riproducibile tale e quale, almeno per quel sistema.

L’ordine con cui ho elencato le categorie cromatiche di Berlin e Kay non è quello “ufficiale”, ma è funzionale per me, al fine di porre in evidenza che il loro valore come riferimenti, è valido e universale purché si tratti di oggetti non autoluminosi, come sono, per esempio, i cavi elettrici, i contrassegni di linee gas o liquidi, gli estintori, eccetera. Quando si tratta di oggetti luminosi, ovvero di pulsanti retroilluminati o delle così dette spie LED o icone retro-illuminate, le possibilità di attribuzione di funzione diminuiscono:

nero = non esiste una luce nera,

grigio = non esiste una luce grigia,

marrone = non esiste una luce marrone, se realizzata con retroilluminazione può confondersi con rosso o arancione sbiaditi,

rosa = non esiste una luce rosa, se realizzata con retroilluminazione può confondersi con un rosso sbiadito,

viola = esiste, ma non deve confondersi con blu; usata in particolari ambienti industriali come “rosso gravissimo”,

rosso magenta = esiste, ma non deve confondersi con rosso, usata in particolari ambienti industriali come “rosso gravissimo”,

bianco = UTILIZZATO può confondersi con una sorgente di illuminazione; come icona indica un normale servizio attivato,

giallo = UTILIZZATO ma non deve confondersi con arancione se anche questo è usato nell’interfaccia

arancione = UTILIZZATO ma non deve confondersi con rosso se anche questo è usato nell’interfaccia

rosso = UTILIZZATO

verde = UTILIZZATO

blu = UTILIZZATO

Come si vede, i colori utilizzabili come luci di segnalazione per il controllo di un sistema, si riducono a sei, massimo sette. Ma quelli “sicuri e inequivocabili” sono solo 3.

Quindi, a seconda dell’interfaccia da realizzare, bisognerà decidere le assegnazioni sulla base di cetegorizzazioni adattate all’utilizzo della macchina e agli effettivi pericoli, attenzioni, attività da segnalare, perché non sarà possibile attribuire diversi colori a tutte le diverse funzioni.
Molte spie LED o icone retro-illuminate dello stesso colore, dovranno, per forza di cose, assimilarsi entro un’unica categoria segnaletica, nella quale sarà però impossibile creare scale di gravità-priorità.

La prossima volta che entrate nella vostra autovettura, date un’occhiata a come sono state organizzate le varie icone o spie del quadro di controllo e di che colori sono. Dopo una specie di rapido auto-check che fa accendere tutto, molte si spegneranno. Ragionate su quelle scelte che qualche team di progetto avrà dovuto fare. Come avreste fatto voi? Forse qualcosa di diverso, in altra posizione, con altro colore? Progettare interfacce che siano efficaci in tutti i paesi dove quell’autovettura viene commercializzata, non è cosa facile.

I colori danno molti vantaggi nelle interfacce,
ma sono molti meno di quanto ci si potrebbe attendere

Abbiamo visto che i colori utilizzabili senza fare confusione sono solo undici, limitati a sette se oggetti autoluminosi, se non a tre o quattro se vogliamo andare sul sicuro.
Ebbene, uno dei limiti dei colori funzionali segnaletici non è quello di essere solo undici e non è nemmeno un loro limite. Il limite è nostro e risiede nella memoria, strettamente correlata a quella che si potrebbe definire pigrizia mentale.

È noto che le aree cerebrali deputate ad immagazzinare dati, situazioni ed esperienze, cancellano tutto ciò che ritengono inutile o non interessante per la nostra sopravvivenza. La pigrizia mentale è, in un certo senso, un’analisi preventiva dei dati che dovrebbero essere assunti per entrare in memoria, ma che non vengono ritenuti utili per raggiungere uno scopo o per portare a termine un compito. In sintesi, il cervello si rifiuta di imparare e cerca soluzioni alternative.
Ci si trova spesso a dover memorizzare le disposizioni di un’interfaccia, ogni volta diversa in quanto adattata

a diverse necessità e progettata in modi diversi, spesso con molta attenzione al design, ma poca alla percezione cognitiva dell’utenza. Non è che l’utenza venga considerata deficitaria da un punto di vista cognitivo, ma spesso non viene considerato lo stato di criticità psicofisiologico con il quale si avvicina all’interfaccia. Una cosa è progettare l’interfaccia di controllo di una macchina agricola, per il movimento terra, di una linea di produzione, di un veicolo militare, di un’auto di Formula 1, con le quali l’operatore si rapporterà abitualmente; altra cosa è progettare per un’utenza diffusa, che spesso si troverà a dover apprendere quell’interfaccia per la prima volta in vita sua e spesso in condizioni di SNA simpatico parecchio attivo. Il famigerato parchimetro e i totem orientativi degli ospedali dovrebbero bastare come esempi di interfacce da utilizzare sotto la pressione di ansia e fretta, che di certo sbiadiscono la lucidità mentale e la concentrazione richieste.

Quanti di voi, in un grande ospedale, di fronte a un totem orientativo pieno di frecce e di pallini di diversi colori indicanti i reparti hanno sentito una vocina che suggeriva di lasciar perdere e di chiedere al primo infermiere di passaggio?

Nel controllo-gestione di una macchina, l’operatore dovrebbe poter fare un rapido controllo visivo, per assicurarsi che tutto proceda secondo programma, oltre a ricevere un feedback una volta che abbia dato un comando. Lo sviluppo (smodato) delle interfacce digitali, ha portato a una specie di minimalismo, per cui le spie, spesso rappresentate da icone, sono invisibili quando non si illuminano, cioè quando non devono segnalare alcunché. Questo toglie la possibilità di un feedback “attivo-non attivo”.
Si può solo capire che se non vi sono spie accese, allora va tutto bene, ma non è possibile essere certi che esse funzionino e, per molti conducenti di autovetture, che esse addirittura esistano! Se se ne accende una, magari arancione, appare come icona, come simbolo senza scritte, per cui si va a cercare sul manuale del veicolo e la si trova finalmente dopo una mezz’ora; spesso rappresentata in bianco e nero.
I parametri, le variabili possibili, le priorità sono diverse; così cambiano le posizioni, spesso anche le dimensioni e le scritte o le icone, ma i colori disponibili sono sempre quelli e anche pochi, a dimostrare che i colori, di per sé, non significano nulla, se non abbinati a qualcosa (pittogrammi, icone, scritte), a manuali, all’apprendimento e all’esperienza. Le macchine emettitrici di biglietti, le casse automatiche e soprattutto i parchimetri insegnano.

Conclusioni

Essendo il colore un argomento complesso, articolato, multidisciplinare e interdisciplinare oltre che trasversale, mi trovo spesso ad aprire su tematiche che mi fanno deragliare dal titolo del QUADERNO.
Ogni volta che scrivo qualcosa sul colore, mi rendo conto di quanto sia un tema affascinante, perché io stesso imparo qualcosa di nuovo. Perché il nuovo può essere qualcosa che non sapevo o non sapevo abbastanza e che sono andato a cercare per non scrivere sciocchezze, ma il nuovo è anche un dettaglio, un punto di vista alternativo, un focus dove non mi ero mai soffermato. Lo sapevo, ma non mi ero accorto consapevolmente che potesse essere utile porlo in evidenza a me stesso e agli altri.
Sulle interfacce ci ragiono da tempo, al punto d’aver scritto, non ricordo dove, che servirebbe un corso di laurea specialistica dedicato. Le troviamo ovunque e ne troveremo sempre di più e spesso presentano limiti ed errori progettuali, risultando veramente ostiche. Insomma, credo sarete tutti d’accordo che, salvo essere piloti esperti, saremmo tutti spaesati di fronte al cockpit di un Boeing 707. Bene. Quindi quando vi troverete di fronte a un parchimetro per voi nuovo e vi scoprirete ancora una volta imbranati (soprattutto se vi chiede di inserire il numero di targa che non ricordate mai), non preoccupatevi; non sarà del tutto colpa vostra!

Con tutta la mia solidarietà,

Giulio Bertagna

NOTA: questo QUADERNO, come tutti gli altri è protetto da copyright. Se condividete certi concetti, introiettateli e fateli vostri (li scrivo apposta), ma se li divulgate, per cortesia, citate l’autore. Grazie